sabato 19 maggio 2018

Rubrum (Nadine e Toussaint)

Prologo
(nulla e nient’altro)

Nulla e nient’altro
s’inoltra come la febbre.
Tutto quel calore addosso alla pelle,
i fremiti, i sussulti della brama e della passione,
la mente che ruota e saldo lo sguardo, ma percepire l’oltre,
cogliere l’altrove e intendere il dove.
Stupore è nello scoprirsi vivi
e - da ogni poro che arde -
splende la fiamma.

E poi il rosso.



Rubrum
(Nadine e Toussaint)

 “Cosa sono le leggi del mondo?
Chi ha scritto che non avrebbe potuto?
Io ho amato, vestito ed atteso un uomo,
un uomo che volava giù, lungo le pendici del mare
ad inseguire il buio delle profondità
per farne il suo salario e la sua follia.

e intanto la stagione ci sorprendeva
e (come fosse un soldato vinto) dal Golfo del Leone
il Rodano s’arrendeva alla vita e cessava di frenare il respiro
scagliando il fiato fin dove il mare lo accordava
e allora le bocche di Bonifacio s’aprivano
a far perdere la ragione al Maestrale
e, anche in quegli istanti,
Toussaint s’appendeva alle onde e abbandonava me
ed ogni più piccola prudenza per poter ancora una volta
ritrovarsi a toccare il fondo e mieterne incanti.
Come se non vi fosse veleno a cento metri
come se nel buio lui sapesse confessare
il silenzio, la ragione, la pazzia

e picchettare, picchettare mentre si misurano i sospiri
- laggiù ogni minuto conta per dieci -
e per tornare saper di dover sgranare più di un rosario
scovare la corda e tirare e tirare se stesso
con le gambe paralizzate e l’aria che può ribollire nelle arterie
e poi, immobile, fissato alla corda, rendere grazie al blu.

Ed Io ho amato e reciso ogni corallo insieme a lui
- quando m’aveva tremava sempre un po’ –
“giacché una cosa è scendere a cento metri”
 diceva “ed un’altra è amare una donna”
ed io mi libravo come un pedagno, sua,
fissata al fondo e sballottata dalle onde

- meraviglia immobile sul riflesso del mare - 

e lui m’abbozzava quei rami sulla pelle
e io gli cavavo da ogni poro quella sua strana voglia
di farsi notare da Dio,
come un Cantu in Paghjiella
sfuggire dalle verità per intonare una lontananza
e riempire, riempire d’aria sino ad esplodere
sino a farsi sentire altrove,
poiché è giusto che un’anima così possa scoppiare,
che faccia sentire il suo rumore,
che aleggi fino a rendere noto l’impossibile.

E poi ancora a cavare il rosso dal mare
e per ricambiare tendere se stesso,
ogni vena e ogni avrà luogo.
Svelto si faceva il segno della croce,
nel silenzio una breve preghiera
- mi sembrava giusto rivolgere lo sguardo altrove –
e poi giù a sospirare il fondo.

Il vecchio glielo aveva detto
che erano tutte stronzate!
“Per salire e per correre giù
Dio ci ha dato una pietra,
un po’ d’aria, il respiro e la follia”
nient’altro occorreva a Toussaint
se non l’impazienza della cernia
- in una sola boccata un bottino intero –
e la solitudine del san Pietro
o la discrezione diurna della murena
così da smarrirsi in una notte stellata
dove l’insonnia arruffa il sonno
e scoprirsi a disertare la terra per annegare ancora un po’.

E poi inondare la stanza come si inondano i polmoni,
mostrare al mondo le proprie vene, rosse,
fronde ormai rapprese e prive di  vita
in attesa d’esser discolpate dall’esser il frutto
di una testa gettata in mare.
E poi l’incanto della sua potenza eccezionale e discorde:
non minerale anche se pietrificato,
non vegetale anche se ramificato,
non animale anche se color del sangue.
Non poteva Toussaint non farne la sua prigione
il suo claudicare verso la pazzia, la sua fame,
il suo offuscamento e le sue visioni,
accecato da se stesso – come Santa Lucia –
e gli occhi resi dal rosso come fossero preghiera
e sguardi distesi a officiare ogni spiaggia.
Che ne potete sapere se non avete amato?
Lui voleva solo protrarre il suo respiro,
duecentocinquanta bar e poi via a rompersi giù
- senza zavorra -
dove tramontano le cime ad amare e a dimenticarsi di me
ma io avevo imparato a sentire il suo profumo
anche tra le pieghe sapide del mare
e lo vedevo arrivare piegata ai bordi dello Zodiac
e mi tuffavo giù a citare il cielo
e a raccogliere quelle arterie rubate agli abissi.

Touissaint, mon amour, mio amore e mia condanna
ogni tuo tendere le vene al cielo è stato
per me appartenere ad una preghiera,
il nostro calvario, la nostra pena.”




EPILOGO
(……..)

E ancor oggi fiancheggia se stesso
nell’inoltrarsi pieno di coscienza
a cercare un colore che non può vedere
veloce nel blu, come fosse essenziale
riportare a terra quel ritratto di arterie.
E lì ad aspettarlo, per rubargli un respiro,
c’è ancora Nadine che agile sprofonda ad amare


CHIUDO
(una verità su federica sabbatini)
e poi nel blu come se non fossi ancora donna
con le mani giunte e una timida preghiera
gli occhi sbottonati come una camicetta
a reggere lo sguardo e a puntellare la mia pelle.
un brivido e a respirare - potevo volare e non lo sapevo –
avere lo stupore di una vergine e l’impazienza di un vecchio
e come ovatta ogni più piccolo mio gesto.
e poi ancora il blu, sapido m’assale e,
sedotta, cedo alle sue braccia


© federica sabbatini


Fragilità

Fuori il vento preme sulla luna. 
È uno di quei pomeriggi in cui 
le colline non si nascondono 
dentro l'arrivo della sera e 

- anche le persone -

indossano un profilo, 
la propria fragilità come denaro
e pagano in contanti 
comprensioni, consigli e ottenimenti 
sfuggendo dalla tela di un pittore che 
non volle mai contornare una colpa. 
Sono i nostri polmoni a respirare 
e di aria ce n'è per tutti. 

Che se un giorno io 
debba piangere ancora 
non sia per piegare un sogno altrui.



domenica 27 marzo 2016

Tannico - Poesia di federica sabbatini e Dipinto di Patrizia Falconetti

non avevo previsto questa rosea secchezza
è una notte di cui non avevo preso alcuna nota,
 né segni, né sintomi, solo una brusca siccità
nella bocca. non avevo indovinato la tua assenza,
ma inventato ogni accesso sulla pelle e dita invadenti
e sfacciate e onde sul fondale a ricondurmi a riva.
sei tannico. hai asciugato la mia bocca e reso ubriaca
accordandomi questi sapidi versi e una luna nel collo
a procurarmi maree, ombre e chiarori notturni.
sei tannico. come vino mi dissecchi e tingi le mie labbra
di versi e idiozie e mi fai cavare le scarpe e imbrattare  
le ombre con inchiostri e deliri. eppur mi sento,
anche in questo difetto, ci sono in ogni mancanza,
in ogni  insufficienza mi ottengo e vivo.

© federica sabbatini, 27 marzo 2016  
Dipinto Patrizia Falconetti







giovedì 25 giugno 2015

Stasera mi devo bastare

 Stasera mi devo bastare.
C’è stato un contrattempo,
un imprevisto, una fatalità.

Mi devo bastare e allora m’invento una mano,
una lieve parola che racchiuda in sé una maniera,
una frase che accarezzi ogni angolo del corpo.

Sì, stasera ha bussato un inaspettato impedimento,
c’è silenzio, non ci sono né lampioni e né sampietrini,
non ci sono occhi a distendermi lungo gli argini.

Mi devo bastare, trovare un soffio tra le ragnatele,
duplicare l’alito tra le mie labbra, un sospiro e poi due
a disegnare tra le righe il profilo di  questo scoglio.


© f. sabbatini, 25 giugno 2015 

martedì 26 maggio 2015

Chissà che giorno era.

Chissà che giorno era.

Forse era un mercoledì di maggio oppure una di quelle mattine in cui
non ti riesci a guardare allo specchio con gli abiti scelti la sera.
Magari, era solo un lunedì mattina in cui la pioggia aveva smesso di nascondere le frasi o,
forse,era uno di quei giorni in cui le ombre s'appoggiano ai muretti.
Che fosse stato un sabato sera!?
Uno di quelli in cui i calici si riempono di dubbi e 
le fioriere dimenticate piangono dinanzi ai poeti.

Non ricordo quand'è che mi nacque dentro,
non ricordo come poté accadere di scivolare in una parola.

martedì 3 marzo 2015

È molto piccolo un punto.

È molto piccolo un punto. 
Ho già indossato il giubbetto, 
uscire d’inverno fredda la pelle. 
Accorderei volentieri questa sera 
se solo avessi studiato musica e 
invece uso queste mani 
per imbrogliare un senso. 
Tu capiresti. 

Non puoi disertare quella carezza. 
Il fianco esige una preghiera, 
un pellegrinaggio, un voto. 
Poggio il respiro nell’aria gelida di febbraio,
è un respiro che freme un inizio, un debutto, 
un esordio in questa frase, come se 
mai nulla mi avesse toccato, grido di me stessa, 

rendo grazie, ai brividi sulla pelle, mi basto. 
Insostituibile per me stessa, 
serro le labbra a imprigionare un sussulto.

© f.sabbatini




 ph © federica sabbatini



Se sono qui è per respirare un’ultima volta.

[…]

“Se sono qui è per respirare un’ultima volta.”

“Che vuoi dire?”

“A volte arriva il momento di tirarsi indietro. Quando capisci che un frattempo era solo un pretesto per credere che i ciliegi potessero fiorire solo in quel giardino. Accordare ogni raggio di sole non prepara all’inverno. Nulla era diverso se non per trafugare una possibilità da questi anni. Era la verità che non confessavi nemmeno a te stesso a frantumare i giorni, quelli che ora avranno una differente accezione. Nulla era differente, nemmeno la rabbia, nemmeno il disgelo. Il tempo non conosce risposte e chiedere un parere a se stesso è come imbrogliare il proprio cuore. Ci sono fatiche che dobbiamo al vivere e fatiche che ci arrechiamo per il poco coraggio. Ritrovarsi a implorare ciò che la naturalezza imponeva e origliare le bugie indotte dalla paura. Eppure il mare lo abbiamo visto in tutte le sue sfumature e abbiamo steso addosso a lui i nostri vagheggi. E ora trovare un senso, no, non posso permettermelo, perché l’unica cosa che mi verrebbe da fare è affermare che tutto ciò lo vedevo, ma per crederti stendevo il buio sulla tela del divenire. Sono andata oltre me stessa, ora mi merito un altrove dove posarmi, scorporare questo snervamento e unirmi ai ciliegi.”

[…]

© f.sabbatini, 03 marzo 2015 




giovedì 26 febbraio 2015

il sale addosso

Amore mio,

occupo ogni giorno nell’attesa di un tuo sospetto, di un tradire quest’assenza con un misero respiro, un brivido da raccogliere nel freddo di quest’inverno e tradire la realtà di una memoria. Ricordo ancora mia madre che aspettava il suo uomo tornare dal mare; era nuda nel vuoto che si creava nel porto, era sola insieme a tanti, era come me, oggi, a non comprendere il perché di quel tratteggio nel cielo. Invocava quel Dio al quale era stata educata e mi teneva la mano bestemmiando i contorni della vita e benediceva la lontananza per averle insegnato ad estrarre se stessa dal bisogno materiale di un uomo. Solo l’amore le mancava, niente più di quell’abbraccio nel fresco mattino di un novembre in riva al mare.

Ora sono io che indugio sul tuo profilo, quel profilo che vidi per l’ultima volta un ventidue dicembre di non so quale anno, quel profilo che un alito rivelava nel freddo e quel profilo che ancor’oggi m’aggrava il giorno nel passeggiare in questo porto dove smisi di intendere il sussurro della tua presenza.

Attraccata c’è ancora la vecchia barca di Italo. Ricordi? Fu li che mischiammo i nostri sospiri e imparammo che le mani andavano oltre la fatica, oltre a quelle ferite che sparivano nel momento che ci colavamo addosso ogni misterioso respiro. Mi ricordo ancora ogni tratteggio che feci lungo la tua schiena mentre m’aggrappavo con tutta la forza alla tua pelle. La barca di Italo sta ancora là, anche lui se ne è andato. L’abbiamo sepolto accanto suo figlio. Dopo suo figlio. Quelle lacrime devono averlo ucciso, quelle gocce salate devono aver ammazzato un uomo che il sale lo aveva addosso fin dalla nascita. Un sorso, ti disseti e poi la vita non c’è più, nemmeno quella di un vecchio pescatore a cui era rimasta le nebbia.



E tu invece ancora ci sei. Non mi è arrivata mai alcuna lettera che contraddicesse la tua vita. Non mi è ancora arrivato nessun tuo messaggio. Lo sai? Mi hanno chiesto di smettere di scriverti, ma io so che a tenerti ancora in vita sono le mie parole, quelle che ti ho scritto dentro nelle notti in cui spiavamo i gabbiani riposare tra gli scogli, quelle che ti ho adagiato sui palmi delle mani quando mi aiutavi a scendere dalla finestra della mia camera per fuggire sulla spiaggia con la paura nel cuore d’esser scoperti dalla zia Rosetta. 

La Zia, anche lei piange. Le hanno detto che non può più insegnare. Non è d’accordo con questa vita. Un giorno a scuola disse che questa guerra non era giusta, credo che qualche bambino comprese che era così e volle spiegare a suo padre. I bambini comprendono sempre ciò che è giusto, ma un adulto è un adulto e purtroppo può disconoscere ogni bellezza. Ed oggi la zia veste di nero senza esser vedova, nel viso le scorre qualche ruga in più, le sue guance come scogli sulle quali il mare s’adagia. Gocce salate, le nostre.

Sai? Poi abbiamo smesso di piangere. Non si può rincorrere il dolore quando c’è gente che muore. In tanti, tranne te. Si è troppo occupati a sopravvivere, qui si pesca ancora, le lampare di notte illuminano le speranze oltre ad attirare qualche pesce. Escono quasi come fossero sogni, come tanti fari in mezzo al mare a rischiarare le nostre strade, le vostre, ad indicarvi ancora quest’isola, questo vento.


L’altra notte il mare si è alzato all’improvviso a soffocare il pianto di Maria. Il mattino le dissero che Piero non sarebbe più tornato. Le dissero che la morte non è il disegno di Dio, ma il disegno degli uomini. Solo loro sanno uccidere con un “perché”. Il resto è la vita. Ma Maria urlava che quel “perché” Piero non lo aveva mai scritto, lui non aveva mai imparato a scrivere, a lui bastavano gli occhi per fare poesie, le sue labbra, piangeva, avevano scolpito su i suoi fianchi i più incantevoli versi d’amore e le sue mani domandavano soltanto. Non aveva mai posseduto un perché ed ora non lo avrebbe più avuto di certo.

[…]


© f.sabbatini

venerdì 5 dicembre 2014

Poi sulla pelle di questo mare come un brivido.


Il maestrale a contrastare il fuoco.
Poche voci a ingannare lo spacco
delle onde sulla spiaggia deserta.
Qualche gabbiano qua e là a
scarabocchiare il cielo e sospiri impiccati
ad un silenzio che non vorrei sciogliere.

Poi sulla pelle di questo mare come un brivido.

Finiva la luce, ma era solo un illusione
da parte di un dire maldestro.
Il silenzio raccoglieva ogni passo urtando
il vociare profumato dei pini.
Io ti raccoglievo in disparte,
come fosse ancora primavera.

Poi m'accorsi da un tramonto
che le foglie delle viti dimenticate arrossirono
e trattenendo un verso
si mischiarono con il fuggire di un onda.

Isole tremiti, 02 novembre 2014

© federica sabbatini



domenica 18 maggio 2014

Sono una di terza classe - federica sabbatini da "Perdonate il Bianco e il Nero"

Lo so Capitano, che sono una di terza classe, ma, sa, non mene dispiaccio: viaggio in terza classe e ci sto bene. Qui si balla,qui si vive, qui si fa l’amore sopra i barili e si sente odore di vita.

No Capitano, non è puzza, è profumo di cose dette, di cantilenee tamburi, è un angelo che si mischia con il peccato, è un grido esistere.

Allora che ci faccio qui in prima classe? Sono un attimo salita a vedere, sono curiosa, sono venuta a origliare l’amore ricco e sa, non mi piace l’amore vostro... l’amore in prima classe è una banconota stampata, invece da noi l’amore sa di Gerbera e i petali sanno cadere. Cosa? Sono insolente? Mi vuole punire? E va be’, capitano, petalo più o petalo meno, intanto sono riuscita a vedere un brillante, è vero, brilla, ma solo sotto la luce. Io Capitano, forse, le sembrerò un po’ vanitosa, ma so brillare anche al buio, quando sogno, quando mi mischio alla luna e alle stelle, e grido le maledizioni al mare; la notte, quando scaccio le ansie con la fatica del giorno, dopo averlo stretto tra le mie gambe sui sacchi di juta. Cosa? Non sono cose che si addicono a una ragazza? Ma, guardi che l’ho vista ieri quando si avvinghiava alla Rosina, l’ho vista quando la pagava per un’ora d’amore. No, Capitano, non la giudico, ognuno cerca l’amore a suo modo, e, poi alla Rosina quei soldi servono, sa, ha un marito che è fuggito e due figli da sfamare; anzi, Capitano, ci torni anche stasera dalla Rosina, potrebbe innamorarsi. No, non si offenda: ho soltanto parlato d’amore... Ma perché voi ricchi vi scandalizzate sull’amore e poi non vi offendete di fronte all’odio? Ne ho visto tanto in prima classe, pensi, anche addosso ai vestiti, ai colli di pelliccia, ai cappotti, ai gioielli. Da noi si odia per cose vive, dove abitavano io ho visto litigare due contadini per una mucca, due fanciulle per il figlio del mugnaio e due ubriachi all’osteria di Mario per due bicchieri di troppo.

Sa, Capitano, voi forse avete la pelle che profuma di acqua di colonia, noi, Capitano, abbiamo la pelle che sa di esplorazioni, chi non esplora il dolore non può saper guardare oltre gli sguardi. Io l’ho vista Capitano: lei è uno che i dolori li scansa, ma sbaglia, sa? Il dolore va vissuto, maledetto, bestemmiato, divorato. Io è così che ho imparato a scorgere l’anima. È una gran cosa l’anima, sa Capitano, l’anima va oltre e, meraviglia, esiste. Io non ci credevo, sa? Ma le giuro che l’ho vista, pensi, anche in lei, perfino in quella megera della prima classe, non è una grande anima, ma ce l’ha anche lei. Ce l’abbiamo tutti. Allora, Capitano, stasera torni dalla Rosina e provi a carpirne l’anima, ci s’innamora di esse, sono le nuvole dei nostri cieli. Anche noi abbiamo un cielo, il mio la notte si riempie di stelle e ha la luna che illumina le nuvole. No che non sono sciocchezze, sono sogni, provi ad averne, li leghi al timone della sua nave e sa che orizzonti!

Ora, Capitano, le chiedo scusa se l’ho offesa, ma io le ho detto cosa pensavo e non l’ho fatto ostentando quella bruttezza e bramosia di sputare le cose in faccia, l’ho fatto porgendole il rispetto, l’ho fatto per farle notare la bellezza delle sirene della sua nave, l’ho fatto per poterle regalare una porzione dei miei orizzonti.


Buona notte, Capitano


federica sabbatini
tratto da "Perdonate il Bianco e Nero".

lunedì 3 marzo 2014

Domenica 09 marzo 
in occasione del 
Festival dell'Arte e della Creatività Femminile
 a Castellina Marittima...

Presentazione del libro "Perdonate il Bianco e Il Nero" di Federica Sabbatini...


lunedì 3 febbraio 2014

Colline in diserbo

Disegno dell'artista Maurizio Barraco

un disegno di beatificazione per te, cara puttana,
per te che non hai temuto il contrasto di una vita
e sommergi con coraggio distante e perduto
tutti i santi dei calendari appesi a descrivere le lune

pure tu sei tonda, piena, illumini e sposti il mare
con il solo abbraccio dichiari e non nascondi
il campo di ciliegi e quegli orti spogli di poesia
una lirica il tuo approdo in quell’eco di lealtà

e colline in diserbo il tuo corpo derubato dalle voci.


© federica sabbatini