Prologo
(nulla e nient’altro)
Nulla e nient’altro
s’inoltra come la febbre.
Tutto quel calore addosso alla pelle,
i fremiti, i sussulti della brama e
della passione,
la mente che ruota e saldo lo sguardo,
ma percepire l’oltre,
cogliere l’altrove e intendere il dove.
Stupore è nello scoprirsi vivi
e - da ogni poro che arde -
splende la fiamma.
E poi il rosso.
Rubrum
(Nadine e Toussaint)
“Cosa sono le leggi del mondo?
Chi ha scritto che non avrebbe potuto?
Io ho amato, vestito ed atteso un
uomo,
un uomo che volava giù, lungo le
pendici del mare
ad inseguire il buio delle profondità
per farne il suo salario e la sua
follia.
e intanto la stagione ci sorprendeva
e (come fosse un soldato vinto) dal
Golfo del Leone
il Rodano s’arrendeva alla vita e cessava
di frenare il respiro
scagliando il fiato fin dove il mare
lo accordava
e allora le bocche di Bonifacio
s’aprivano
a far perdere la ragione al Maestrale
e, anche in quegli istanti,
Toussaint s’appendeva alle onde e abbandonava
me
ed ogni più piccola prudenza per poter
ancora una volta
ritrovarsi a toccare il fondo e mieterne
incanti.
Come se non vi fosse veleno a cento
metri
come se nel buio lui sapesse
confessare
il silenzio, la ragione, la pazzia
e picchettare, picchettare mentre si
misurano i sospiri
- laggiù ogni minuto conta per dieci -
e per tornare saper di dover sgranare
più di un rosario
scovare la corda e tirare e tirare se
stesso
con le gambe paralizzate e l’aria che può
ribollire nelle arterie
e poi, immobile, fissato alla corda, rendere
grazie al blu.
Ed Io ho amato e reciso ogni corallo
insieme a lui
- quando m’aveva tremava sempre un po’
–
“giacché una cosa è scendere a cento
metri”
diceva “ed un’altra è amare una donna”
ed io mi libravo come un pedagno, sua,
fissata al fondo e sballottata dalle
onde
- meraviglia immobile sul riflesso del
mare -
e lui m’abbozzava quei rami sulla
pelle
e io gli cavavo da ogni poro quella
sua strana voglia
di farsi notare da Dio,
come un Cantu in Paghjiella
sfuggire dalle verità per intonare una
lontananza
e riempire, riempire d’aria sino ad
esplodere
sino a farsi sentire altrove,
poiché è giusto che un’anima così
possa scoppiare,
che faccia sentire il suo rumore,
che aleggi fino a rendere noto
l’impossibile.
E poi ancora a cavare il rosso dal
mare
e per ricambiare tendere se stesso,
ogni vena e ogni avrà luogo.
Svelto si faceva il segno della croce,
nel silenzio una breve preghiera
- mi sembrava giusto rivolgere lo
sguardo altrove –
e poi giù a sospirare il fondo.
Il vecchio glielo aveva detto
che erano tutte stronzate!
“Per salire e per correre giù
Dio ci ha dato una pietra,
un po’ d’aria, il respiro e la follia”
nient’altro occorreva a Toussaint
se non l’impazienza della cernia
- in una sola boccata un bottino
intero –
e la solitudine del san Pietro
o la discrezione diurna della murena
così da smarrirsi in una notte
stellata
dove l’insonnia arruffa il sonno
e scoprirsi a disertare la terra per
annegare ancora un po’.
E poi inondare la stanza come si
inondano i polmoni,
mostrare al mondo le proprie vene,
rosse,
fronde ormai rapprese e prive di vita
in attesa d’esser discolpate
dall’esser il frutto
di una testa gettata in mare.
E poi l’incanto della sua potenza
eccezionale e discorde:
non minerale anche se pietrificato,
non vegetale anche se ramificato,
non animale anche se color del sangue.
Non poteva Toussaint non farne la sua
prigione
il suo claudicare verso la pazzia, la
sua fame,
il suo offuscamento e le sue visioni,
accecato da se stesso – come Santa
Lucia –
e gli occhi resi dal rosso come
fossero preghiera
e sguardi distesi a officiare ogni
spiaggia.
Che ne potete sapere se non avete
amato?
Lui voleva solo protrarre il suo
respiro,
duecentocinquanta bar e poi via a rompersi
giù
- senza zavorra -
dove tramontano le cime ad amare e a
dimenticarsi di me
ma io avevo imparato a sentire il suo
profumo
anche tra le pieghe sapide del mare
e lo vedevo arrivare piegata ai bordi
dello Zodiac
e mi tuffavo giù a citare il cielo
e a raccogliere quelle arterie rubate
agli abissi.
Touissaint, mon amour, mio amore e mia
condanna
ogni tuo tendere le vene al cielo è
stato
per me appartenere ad una preghiera,
il nostro calvario, la nostra pena.”
EPILOGO
(……..)
E ancor oggi fiancheggia se stesso
nell’inoltrarsi pieno di coscienza
a cercare un colore che non può vedere
veloce nel blu, come fosse essenziale
riportare a terra quel ritratto di
arterie.
E lì ad aspettarlo, per rubargli un
respiro,
c’è ancora Nadine che agile sprofonda
ad amare
CHIUDO
(una verità su federica sabbatini)
e poi nel blu come se non fossi ancora
donna
con le mani giunte e una timida
preghiera
gli occhi sbottonati come una
camicetta
a reggere lo sguardo e a puntellare la
mia pelle.
un brivido e a respirare - potevo
volare e non lo sapevo –
avere lo stupore di una vergine e
l’impazienza di un vecchio
e come ovatta ogni più piccolo mio
gesto.
e poi ancora il blu, sapido m’assale
e,
sedotta, cedo alle sue braccia
© federica sabbatini