giovedì 26 febbraio 2015

il sale addosso

Amore mio,

occupo ogni giorno nell’attesa di un tuo sospetto, di un tradire quest’assenza con un misero respiro, un brivido da raccogliere nel freddo di quest’inverno e tradire la realtà di una memoria. Ricordo ancora mia madre che aspettava il suo uomo tornare dal mare; era nuda nel vuoto che si creava nel porto, era sola insieme a tanti, era come me, oggi, a non comprendere il perché di quel tratteggio nel cielo. Invocava quel Dio al quale era stata educata e mi teneva la mano bestemmiando i contorni della vita e benediceva la lontananza per averle insegnato ad estrarre se stessa dal bisogno materiale di un uomo. Solo l’amore le mancava, niente più di quell’abbraccio nel fresco mattino di un novembre in riva al mare.

Ora sono io che indugio sul tuo profilo, quel profilo che vidi per l’ultima volta un ventidue dicembre di non so quale anno, quel profilo che un alito rivelava nel freddo e quel profilo che ancor’oggi m’aggrava il giorno nel passeggiare in questo porto dove smisi di intendere il sussurro della tua presenza.

Attraccata c’è ancora la vecchia barca di Italo. Ricordi? Fu li che mischiammo i nostri sospiri e imparammo che le mani andavano oltre la fatica, oltre a quelle ferite che sparivano nel momento che ci colavamo addosso ogni misterioso respiro. Mi ricordo ancora ogni tratteggio che feci lungo la tua schiena mentre m’aggrappavo con tutta la forza alla tua pelle. La barca di Italo sta ancora là, anche lui se ne è andato. L’abbiamo sepolto accanto suo figlio. Dopo suo figlio. Quelle lacrime devono averlo ucciso, quelle gocce salate devono aver ammazzato un uomo che il sale lo aveva addosso fin dalla nascita. Un sorso, ti disseti e poi la vita non c’è più, nemmeno quella di un vecchio pescatore a cui era rimasta le nebbia.



E tu invece ancora ci sei. Non mi è arrivata mai alcuna lettera che contraddicesse la tua vita. Non mi è ancora arrivato nessun tuo messaggio. Lo sai? Mi hanno chiesto di smettere di scriverti, ma io so che a tenerti ancora in vita sono le mie parole, quelle che ti ho scritto dentro nelle notti in cui spiavamo i gabbiani riposare tra gli scogli, quelle che ti ho adagiato sui palmi delle mani quando mi aiutavi a scendere dalla finestra della mia camera per fuggire sulla spiaggia con la paura nel cuore d’esser scoperti dalla zia Rosetta. 

La Zia, anche lei piange. Le hanno detto che non può più insegnare. Non è d’accordo con questa vita. Un giorno a scuola disse che questa guerra non era giusta, credo che qualche bambino comprese che era così e volle spiegare a suo padre. I bambini comprendono sempre ciò che è giusto, ma un adulto è un adulto e purtroppo può disconoscere ogni bellezza. Ed oggi la zia veste di nero senza esser vedova, nel viso le scorre qualche ruga in più, le sue guance come scogli sulle quali il mare s’adagia. Gocce salate, le nostre.

Sai? Poi abbiamo smesso di piangere. Non si può rincorrere il dolore quando c’è gente che muore. In tanti, tranne te. Si è troppo occupati a sopravvivere, qui si pesca ancora, le lampare di notte illuminano le speranze oltre ad attirare qualche pesce. Escono quasi come fossero sogni, come tanti fari in mezzo al mare a rischiarare le nostre strade, le vostre, ad indicarvi ancora quest’isola, questo vento.


L’altra notte il mare si è alzato all’improvviso a soffocare il pianto di Maria. Il mattino le dissero che Piero non sarebbe più tornato. Le dissero che la morte non è il disegno di Dio, ma il disegno degli uomini. Solo loro sanno uccidere con un “perché”. Il resto è la vita. Ma Maria urlava che quel “perché” Piero non lo aveva mai scritto, lui non aveva mai imparato a scrivere, a lui bastavano gli occhi per fare poesie, le sue labbra, piangeva, avevano scolpito su i suoi fianchi i più incantevoli versi d’amore e le sue mani domandavano soltanto. Non aveva mai posseduto un perché ed ora non lo avrebbe più avuto di certo.

[…]


© f.sabbatini

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