giovedì 25 giugno 2015

Stasera mi devo bastare

 Stasera mi devo bastare.
C’è stato un contrattempo,
un imprevisto, una fatalità.

Mi devo bastare e allora m’invento una mano,
una lieve parola che racchiuda in sé una maniera,
una frase che accarezzi ogni angolo del corpo.

Sì, stasera ha bussato un inaspettato impedimento,
c’è silenzio, non ci sono né lampioni e né sampietrini,
non ci sono occhi a distendermi lungo gli argini.

Mi devo bastare, trovare un soffio tra le ragnatele,
duplicare l’alito tra le mie labbra, un sospiro e poi due
a disegnare tra le righe il profilo di  questo scoglio.


© f. sabbatini, 25 giugno 2015 

martedì 26 maggio 2015

Chissà che giorno era.

Chissà che giorno era.

Forse era un mercoledì di maggio oppure una di quelle mattine in cui
non ti riesci a guardare allo specchio con gli abiti scelti la sera.
Magari, era solo un lunedì mattina in cui la pioggia aveva smesso di nascondere le frasi o,
forse,era uno di quei giorni in cui le ombre s'appoggiano ai muretti.
Che fosse stato un sabato sera!?
Uno di quelli in cui i calici si riempono di dubbi e 
le fioriere dimenticate piangono dinanzi ai poeti.

Non ricordo quand'è che mi nacque dentro,
non ricordo come poté accadere di scivolare in una parola.

martedì 3 marzo 2015

È molto piccolo un punto.

È molto piccolo un punto. 
Ho già indossato il giubbetto, 
uscire d’inverno fredda la pelle. 
Accorderei volentieri questa sera 
se solo avessi studiato musica e 
invece uso queste mani 
per imbrogliare un senso. 
Tu capiresti. 

Non puoi disertare quella carezza. 
Il fianco esige una preghiera, 
un pellegrinaggio, un voto. 
Poggio il respiro nell’aria gelida di febbraio,
è un respiro che freme un inizio, un debutto, 
un esordio in questa frase, come se 
mai nulla mi avesse toccato, grido di me stessa, 

rendo grazie, ai brividi sulla pelle, mi basto. 
Insostituibile per me stessa, 
serro le labbra a imprigionare un sussulto.

© f.sabbatini




 ph © federica sabbatini



Se sono qui è per respirare un’ultima volta.

[…]

“Se sono qui è per respirare un’ultima volta.”

“Che vuoi dire?”

“A volte arriva il momento di tirarsi indietro. Quando capisci che un frattempo era solo un pretesto per credere che i ciliegi potessero fiorire solo in quel giardino. Accordare ogni raggio di sole non prepara all’inverno. Nulla era diverso se non per trafugare una possibilità da questi anni. Era la verità che non confessavi nemmeno a te stesso a frantumare i giorni, quelli che ora avranno una differente accezione. Nulla era differente, nemmeno la rabbia, nemmeno il disgelo. Il tempo non conosce risposte e chiedere un parere a se stesso è come imbrogliare il proprio cuore. Ci sono fatiche che dobbiamo al vivere e fatiche che ci arrechiamo per il poco coraggio. Ritrovarsi a implorare ciò che la naturalezza imponeva e origliare le bugie indotte dalla paura. Eppure il mare lo abbiamo visto in tutte le sue sfumature e abbiamo steso addosso a lui i nostri vagheggi. E ora trovare un senso, no, non posso permettermelo, perché l’unica cosa che mi verrebbe da fare è affermare che tutto ciò lo vedevo, ma per crederti stendevo il buio sulla tela del divenire. Sono andata oltre me stessa, ora mi merito un altrove dove posarmi, scorporare questo snervamento e unirmi ai ciliegi.”

[…]

© f.sabbatini, 03 marzo 2015 




giovedì 26 febbraio 2015

il sale addosso

Amore mio,

occupo ogni giorno nell’attesa di un tuo sospetto, di un tradire quest’assenza con un misero respiro, un brivido da raccogliere nel freddo di quest’inverno e tradire la realtà di una memoria. Ricordo ancora mia madre che aspettava il suo uomo tornare dal mare; era nuda nel vuoto che si creava nel porto, era sola insieme a tanti, era come me, oggi, a non comprendere il perché di quel tratteggio nel cielo. Invocava quel Dio al quale era stata educata e mi teneva la mano bestemmiando i contorni della vita e benediceva la lontananza per averle insegnato ad estrarre se stessa dal bisogno materiale di un uomo. Solo l’amore le mancava, niente più di quell’abbraccio nel fresco mattino di un novembre in riva al mare.

Ora sono io che indugio sul tuo profilo, quel profilo che vidi per l’ultima volta un ventidue dicembre di non so quale anno, quel profilo che un alito rivelava nel freddo e quel profilo che ancor’oggi m’aggrava il giorno nel passeggiare in questo porto dove smisi di intendere il sussurro della tua presenza.

Attraccata c’è ancora la vecchia barca di Italo. Ricordi? Fu li che mischiammo i nostri sospiri e imparammo che le mani andavano oltre la fatica, oltre a quelle ferite che sparivano nel momento che ci colavamo addosso ogni misterioso respiro. Mi ricordo ancora ogni tratteggio che feci lungo la tua schiena mentre m’aggrappavo con tutta la forza alla tua pelle. La barca di Italo sta ancora là, anche lui se ne è andato. L’abbiamo sepolto accanto suo figlio. Dopo suo figlio. Quelle lacrime devono averlo ucciso, quelle gocce salate devono aver ammazzato un uomo che il sale lo aveva addosso fin dalla nascita. Un sorso, ti disseti e poi la vita non c’è più, nemmeno quella di un vecchio pescatore a cui era rimasta le nebbia.



E tu invece ancora ci sei. Non mi è arrivata mai alcuna lettera che contraddicesse la tua vita. Non mi è ancora arrivato nessun tuo messaggio. Lo sai? Mi hanno chiesto di smettere di scriverti, ma io so che a tenerti ancora in vita sono le mie parole, quelle che ti ho scritto dentro nelle notti in cui spiavamo i gabbiani riposare tra gli scogli, quelle che ti ho adagiato sui palmi delle mani quando mi aiutavi a scendere dalla finestra della mia camera per fuggire sulla spiaggia con la paura nel cuore d’esser scoperti dalla zia Rosetta. 

La Zia, anche lei piange. Le hanno detto che non può più insegnare. Non è d’accordo con questa vita. Un giorno a scuola disse che questa guerra non era giusta, credo che qualche bambino comprese che era così e volle spiegare a suo padre. I bambini comprendono sempre ciò che è giusto, ma un adulto è un adulto e purtroppo può disconoscere ogni bellezza. Ed oggi la zia veste di nero senza esser vedova, nel viso le scorre qualche ruga in più, le sue guance come scogli sulle quali il mare s’adagia. Gocce salate, le nostre.

Sai? Poi abbiamo smesso di piangere. Non si può rincorrere il dolore quando c’è gente che muore. In tanti, tranne te. Si è troppo occupati a sopravvivere, qui si pesca ancora, le lampare di notte illuminano le speranze oltre ad attirare qualche pesce. Escono quasi come fossero sogni, come tanti fari in mezzo al mare a rischiarare le nostre strade, le vostre, ad indicarvi ancora quest’isola, questo vento.


L’altra notte il mare si è alzato all’improvviso a soffocare il pianto di Maria. Il mattino le dissero che Piero non sarebbe più tornato. Le dissero che la morte non è il disegno di Dio, ma il disegno degli uomini. Solo loro sanno uccidere con un “perché”. Il resto è la vita. Ma Maria urlava che quel “perché” Piero non lo aveva mai scritto, lui non aveva mai imparato a scrivere, a lui bastavano gli occhi per fare poesie, le sue labbra, piangeva, avevano scolpito su i suoi fianchi i più incantevoli versi d’amore e le sue mani domandavano soltanto. Non aveva mai posseduto un perché ed ora non lo avrebbe più avuto di certo.

[…]


© f.sabbatini