lunedì 15 luglio 2013

Era stato un aquilone.



Era stato un aquilone – forse – in quel mattino di novembre a sciogliere il mio inizio. Mi sembrò che fosse l’istante giusto per scivolare un po’ più in su.

Diedi inizio a quel dialogo tra senno e spinte, un dialogo marcato da dita a pigiare e da quaderni a racchiudere il volo del dire.

“Tu sei stato più onesto di me, ricordi? Un giorno mi chiesi con tono severo cosa io volessi. Ti risposi seccata che non volevo nulla. Beh, ti mentì. Io volevo l’amore, volevo che fossero versi, volevo che divenisse poesia.

Ti chiedevo – senza parlare o facendolo oltre misura – di amarmi. Di non scavalcare la folla dei miei deliri. A volte ho perfino cercato di issare al cielo le mani e farle impigliare nei grovigli degli insiemi, lassù, aldilà, dove arriva rarefatto il fiato che questa gelida sera d’inverno smaschera.

Svevo anche capovolto le stagioni e non sapevo più riconoscere un’attesa da un approdo e mettevo zollette di zucchero lungo il tuo corpo per dimenticare la mia assenza e ammorbidire con l’ammollo un divenire, ma tu non leggevi e io scrivevo di tutto ciò tra un abdicazione e un’accoglienza.

Ma perché, tu, voi non volete credere all’onestà dei poeti? Anche quando mentono lo fanno solo a se stessi, poi ognuno creda al proprio incedere compiangendosi addosso ciò che essi hanno avuto pietà di scrivere, per se stessi, per gli altri o per nessuno. I versi restano lì, per pochi, per chi non teme i pensieri e i tormenti, per chi non sospetta della vita, per chi sa che un poeta può spegnersi per un solo alito rubato e nonostante ciò dipinge un abbraccio così stretto da scorporare l’anima.

Occorre lasciarli vivere i poeti, avere pietà di loro, delle loro anime disconosciute dalla vita e, invece, spesso indugiate sulla loro morte, come se la fine prospetti l’inizio, come fossero un contrasto terreno, come carne sulla quale dipingere la follia e che ben venga questa benedetta follia se è capace di generare lacrime pure come quelle della poesia e ben venga il cielo a lambire la terra se, così, può nascere un tumulto.


Lasciate liberi i poeti di carezzare la loro solitudine e lasciateli liberi di andare oltre i vostri confini e amateli giacché odiare un poeta è come odiare la propria anima e se proprio non li capite stupitevi di ciò che non riuscite a comprendere, anche di come possa un verso far precipitare la marea dentro l’anima.”


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Dal Blog La scatola di Carta
(Lorenzo Camapanella)

Il testo è musica. Punto. Ma non posso fermarmi qui.

Ho l'onore di avere tra le mie amicizie in social network una vera Persona, con la "P" maiuscola non a caso.

Fin dai primi versi è possibile entrare in quel mondo (non reale, ma è bene colorare i sogni, con una matita di realtà..). Onestamente ho immaginato dei gabbiani colorati volare nel cielo, molto probabilmente è stata la musica ha darmi quest'impressione, ma quello che conta, nel testo, sono le pennellate qua e là.

[...]

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2 commenti:

  1. Questa visione del poeta e della poetessa è profonda... soprattutto perché, al di là dei saggi che si possono scrivere sul fare poesia, fa appello a una specie di cervello emozionale che è da solo in grado di capire, o comunque, di "perdonare" i poeti...

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    1. La poesia è fine a se stessa, Giuseppe. Spesso trovo inutili i saggi sul fare poesia.

      Grazie ♥

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