Amore mio,
occupo ogni
giorno nell’attesa di un tuo sospetto, di un tradire quest’assenza con un
misero respiro, un brivido da raccogliere nel freddo di quest’inverno e tradire
la realtà di una memoria. Ricordo ancora mia madre che aspettava il suo uomo
tornare dal mare; era nuda nel vuoto che si creava nel porto, era sola insieme
a tanti, era come me, oggi, a non comprendere il perché di quel tratteggio nel
cielo. Invocava quel Dio al quale era stata educata e mi teneva la mano
bestemmiando i contorni della vita e benediceva la lontananza per averle
insegnato ad estrarre se stessa dal bisogno materiale di un uomo. Solo l’amore
le mancava, niente più di quell’abbraccio nel fresco mattino di un novembre in
riva al mare.
Ora sono io che
indugio sul tuo profilo, quel profilo che vidi per l’ultima volta un ventidue
dicembre di non so quale anno, quel profilo che un alito rivelava nel freddo e
quel profilo che ancor’oggi m’aggrava il giorno nel passeggiare in questo porto
dove smisi di intendere il sussurro della tua presenza.
Attraccata c’è
ancora la vecchia barca di Italo. Ricordi? Fu li che mischiammo i nostri
sospiri e imparammo che le mani andavano oltre la fatica, oltre a quelle ferite
che sparivano nel momento che ci colavamo addosso ogni misterioso respiro. Mi
ricordo ancora ogni tratteggio che feci lungo la tua schiena mentre
m’aggrappavo con tutta la forza alla tua pelle. La barca di Italo sta ancora
là, anche lui se ne è andato. L’abbiamo sepolto accanto suo figlio. Dopo suo
figlio. Quelle lacrime devono averlo ucciso, quelle gocce salate devono aver
ammazzato un uomo che il sale lo aveva addosso fin dalla nascita. Un sorso, ti
disseti e poi la vita non c’è più, nemmeno quella di un vecchio pescatore a cui
era rimasta le nebbia.

E tu invece
ancora ci sei. Non mi è arrivata mai alcuna lettera che contraddicesse la tua
vita. Non mi è ancora arrivato nessun tuo messaggio. Lo sai? Mi hanno chiesto
di smettere di scriverti, ma io so che a tenerti ancora in vita sono le mie
parole, quelle che ti ho scritto dentro nelle notti in cui spiavamo i gabbiani
riposare tra gli scogli, quelle che ti ho adagiato sui palmi delle mani quando
mi aiutavi a scendere dalla finestra della mia camera per fuggire sulla
spiaggia con la paura nel cuore d’esser scoperti dalla zia Rosetta.
La Zia, anche
lei piange. Le hanno detto che non può più insegnare. Non è d’accordo con
questa vita. Un giorno a scuola disse che questa guerra non era giusta, credo
che qualche bambino comprese che era così e volle spiegare a suo padre. I
bambini comprendono sempre ciò che è giusto, ma un adulto è un adulto e
purtroppo può disconoscere ogni bellezza. Ed oggi la zia veste di nero senza
esser vedova, nel viso le scorre qualche ruga in più, le sue guance come scogli
sulle quali il mare s’adagia. Gocce salate, le nostre.
Sai? Poi
abbiamo smesso di piangere. Non si può rincorrere il dolore quando c’è gente
che muore. In tanti, tranne te. Si è troppo occupati a sopravvivere, qui si
pesca ancora, le lampare di notte illuminano le speranze oltre ad attirare
qualche pesce. Escono quasi come fossero sogni, come tanti fari in mezzo al
mare a rischiarare le nostre strade, le vostre, ad indicarvi ancora
quest’isola, questo vento.
L’altra notte
il mare si è alzato all’improvviso a soffocare il pianto di Maria. Il mattino
le dissero che Piero non sarebbe più tornato. Le dissero che la morte non è il
disegno di Dio, ma il disegno degli uomini. Solo loro sanno uccidere con un
“perché”. Il resto è la vita. Ma Maria urlava che quel “perché” Piero non lo
aveva mai scritto, lui non aveva mai imparato a scrivere, a lui bastavano gli
occhi per fare poesie, le sue labbra, piangeva, avevano scolpito su i suoi
fianchi i più incantevoli versi d’amore e le sue mani domandavano soltanto. Non
aveva mai posseduto un perché ed ora non lo avrebbe più avuto di certo.
[…]
© f.sabbatini